
Oltre le cornici: musei, identità e sguardi intersezionali
Cosa cambia davvero per il pubblico e per le comunità
di Samuele Briatore
Quando entriamo in un museo pensiamo di trovarci davanti a un racconto neutrale, oggettivo, universale. In realtà ogni scelta – dalle opere esposte alle didascalie, dal percorso suggerito alle assenze – riflette prospettive precise e, spesso, parziali. Chi è rappresentato? Chi resta fuori? È a partire da queste domande che il concetto di intersezionalità, nato negli studi giuridici e femministi, sta trovando spazio anche nel dibattito museale. Guardare alle collezioni in chiave intersezionale significa infatti riconoscere le voci invisibili, le identità sommerse, i margini esclusi, e trasformare il museo in un laboratorio critico e partecipativo.
Negli ultimi anni i musei hanno assunto un ruolo sempre più centrale nel dibattito pubblico. Non sono più soltanto spazi di conservazione, ma luoghi in cui si interrogano le grandi questioni del presente: inclusione, accessibilità, giustizia sociale. La Convenzione di Faro ha ricordato che l’eredità culturale non appartiene solo agli esperti, ma è responsabilità condivisa da individui e comunità. In questo quadro il museo diventa un’arena sociale, un laboratorio civico in cui interrogarsi su chi è rappresentato e su chi resta invece escluso.
Un concetto utile per affrontare questa sfida è quello di intersezionalità, introdotto da Kimberlé Crenshaw negli anni Ottanta. L'idea è che identità e discriminazioni non agiscano in modo isolato, ma si intreccino: genere, classe, etnia, orientamento sessuale o disabilità si combinano tra loro generando esperienze specifiche di privilegio o marginalità. Nei musei, ciò significa riconoscere che le narrazioni espositive non sono mai neutre: riflettono prospettive dominanti, spesso bianche, maschili ed eteronormative, e rischiano così di cancellare storie alternative.
La filosofa Judith Butler ha mostrato come il genere stesso non sia un dato naturale, ma un costrutto sociale che si consolida attraverso norme e ripetizioni. Portare questo sguardo nei musei significa capire che anche le collezioni e le didascalie contribuiscono a riprodurre modelli culturali, stabilendo cosa conta e cosa no. Se il genere è performativo, anche il museo 'performativizza' la memoria: attraverso le sue scelte, mette in scena alcuni soggetti e ne oscura altri.
Da tempo la critica museale denuncia questo meccanismo. Michel Foucault parlava di 'regimi di verità': dispositivi che stabiliscono ciò che è dicibile, legittimo, oggettivo. I musei, per secoli, hanno funzionato come strumenti di costruzione del sapere coloniale e patriarcale, definendo l' 'altro' come oggetto da osservare più che come soggetto di parola. Riconoscere questo passato non significa negare il valore delle istituzioni, ma aprirle a nuove pratiche capaci di includere prospettive multiple.
Già nel 2002 lo Smithsonian Institute invitava a considerare i musei come 'agenti di cambiamento', in grado di facilitare l’impegno civico. Oggi questo richiede nuove metodologie: testi didascalici più inclusivi, curatele che riconoscano il ruolo della soggettività, progetti partecipativi che coinvolgano comunità storicamente marginalizzate. Non basta ‘pensare intersezionalmente’: occorre, come scrivono Cho, Crenshaw e McCall, fare intersezionalità’, ovvero renderla operativa nella pratica quotidiana delle istituzioni culturali.
Un terreno particolarmente rilevante è quello del genere. Come osservava Isabelle Vinson già nel 2007, il rapporto tra uguaglianza di genere e patrimonio culturale soffriva di scarsa visibilità politica. I musei hanno per lungo tempo trascurato artiste, figure femminili e narrazioni queer. Un approccio intersezionale permette di superare questa lacuna: non basta ‘aggiungere donne’ nelle collezioni, ma occorre interrogare gli intrecci tra genere, razza, classe e orientamento sessuale nella produzione e nella ricezione dell’arte.
In questa direzione si collocano le riflessioni di Patricia Davison, che ha descritto la curatela come ‘atto soggettivo’ e non neutrale. Anche l’allestimento, la scelta dei materiali o la composizione dei comitati scientifici riflettono rapporti di potere. Parlare di museo come istituzione ‘multivocale’ significa riconoscere questa pluralità di punti di vista e valorizzarla.
Esempi di pratiche intersezionali mostrano che il museo può diventare un luogo 'attivista'. Robert R. Janes e Richard Sandell hanno documentato esperienze in cui le istituzioni si sono fatte laboratori di cittadinanza, affrontando temi come il razzismo, la violenza di genere, i diritti LGBTQ+. Non si tratta di politicizzare il museo, ma di renderlo consapevole del proprio ruolo nel plasmare la società.
L’intersezionalità, in questo senso, diventa un linguaggio critico e progettuale: aiuta a decostruire narrazioni dominanti e a costruirne di nuove, più inclusive. Significa chiedersi: quali voci restano fuori? Quali discriminazioni si intersecano? Chi non è ancora rappresentato?
Ma cosa cambia davvero per il pubblico e per le comunità? Anzitutto, un museo che adotta l’intersezionalità non si limita a 'mostrare' oggetti, ma invita i visitatori a riflettere su come le storie vengano raccontate. I testi espositivi, le opere selezionate, i percorsi offerti non sono più presentati come neutri, ma come scelte che hanno un impatto sulla percezione sociale. Il pubblico viene così reso consapevole del fatto che la cultura è una costruzione, e non un dato oggettivo.
Per le comunità, questo approccio rappresenta un riconoscimento importante. Significa vedere finalmente valorizzate storie familiari, memorie locali, identità minoritarie. Significa poter contribuire in prima persona alla definizione delle narrazioni, trasformando il museo da spazio distante a luogo di partecipazione attiva. In questo modo, l’intersezionalità non è solo un principio teorico, ma un processo che crea legami, costruisce fiducia, restituisce dignità a voci a lungo escluse.
Il museo del futuro, se saprà abbracciare questa prospettiva, potrà diventare uno spazio plurale, aperto e vivo. Non più un luogo che parla 'a nome di', ma uno spazio che costruisce narrazioni 'insieme a' comunità diverse, restituendo complessità e riconoscendo differenze. In questo senso, l’intersezionalità non è solo una teoria, ma una pratica trasformativa, capace di rendere il patrimonio culturale terreno di partecipazione e di giustizia sociale.